Gli Optional
A.A.A.Altri articoli di produzione propria
TESTATA:
REPUBBLICA
DATA:
3/2/1998
PAGINA:
34 - 35
SEZIONE:
CULTURA
OCCHIELLO:
LE VIE DEGLI SCHIAVI / 2
TITOLO:
Nero caccia nero nelle terre del Vudu
SOMMARIO:
Un tempo era il Regno di Dahomey e per secoli i suoi sovrani
armati dai negrieri bianchi hanno venduto le tribù dei
dintorni a
prezzi stracciati. Ora si chiama Benin ed è una repubblica
decisa
a salvare i luoghi-simbolo di quel suo dramma. Il progetto dell'
Unesco sull' Olocausto africano parte da qui, da questa costa
nel
Golfo di Guinea
AUTORE:
di SERGIO FRAU
TESTO:
Ouidah (Benin) - Sono vecchie, sdentate e ballano da dio. Festa
grande, per le signore del vudu: è Capodanno! Piazzato
così - in
mezzo a gennaio - dal governo di qui, in modo da non sbattere
con
le feste dei cattolici e il Ramadan degli islamici. Fanno musica
forte con i loro uomini e il ruhm. Ai maschi, tamburi e gong-gong
di ferro da battere con le bacchette; a loro - che l' età,
i
capelli corti e un panno bianco avvoltolato sui fianchi segnalano
come baccanti voudoun - piccole zucche- maracas, avvolte da
un
reticolo di bottoni, conchiglie e monetine. Strofinandole,
battendole, ritmandole cambiano tono e forza alla musica. Fa
caldo. E gira il ruhm. E loro non sudano. E cantano tutti insieme
mimando - eccessivi di mossette e gesti - quel che cantano.
Il
capretto l' hanno già sgozzato nel pomeriggio, sulla
spiaggia. Ora
è solo tempo di strafarsi di musica, allegria e altro
ruhm. Non è
del tutto scontato trovarsi, per caso, in una situazione del
genere. Diventa più probabile se uno è a Ouidah,
per vedere se
questo antico imbarcadero di schiavi sul golfo di Guinea, regge
il
ruolo che gli vogliono dare. Può essere questa cittadina
- tutta
palme, polverosa e dalle case coloniali belle ma scorticate
- il
luogo di memoria dell' Olocausto nero? Parte veramente da Ouidah
quella "Via degli Schiavi" di cui l' Unesco vuole
salvare le
tracce in giro per il mondo? Certo, da qui tra il Sette e l'
Ottocento ne portarono via davvero tanti... Per noi europei
era il
porto degli affari migliori: i neri vi costavano meno che ovunque,
tanto il sistema era organizzato bene e la materia prima facile
da
rimediare. Tutto merito degli Agasouvì (ovvero: i figli
della
Pantera), la dinastia di re che per quasi tre secoli, tra un
sacrificio umano e l' altro, ha dato battaglia ai popoli vicini
per farli schiavi, rivenderli in cambio di armi, e poter fare
così
nuove guerre per avere nuovi schiavi, nuove armi. Ed è
da qui,
vena aperta sul mare, che il vudu attraversò l' oceano
nelle
stive: l' avevano dentro di sé, centinaia di migliaia
di
deportati, insieme alla paura di essere mangiati da un momento
all' altro durante il tragitto. Trasmigrarono con loro gli
"orisha", divinità degli Yoruba e dei Fon che
oggi sono pregate e
temute ad Haiti, a Cuba, sulle coste di Colombia e qui davanti,
sulla costa di Bahia dos Todos Santos, San Salvador del Condomblè
e dell' Umbanda. Ouidah è ancora oggi una delle città
sacre del
vudu. Certo è meno importante di Ife, l' origine di tutto,
giù in
Nigeria, ma è la terra dove il Dio Pitone, Dangbé,
ha un suo
tempietto zeppo di pitoni veri e annoiatissimi, sue processioni
di
fedeli, le vergini che devono pensare a rifornirlo d' acqua
di
sorgente, ché se non è di vera sorgente o se le
ragazze vergini
non sono - apriti cielo... - succede l' ira di Dio. C' è
persino
un santo padre, il gran sacerdote - Dagbò Ho Uno - che
è
avvicinabile soltanto nelle grandi cerimonie e anche lì,
dicono
tutti, si concede poco. La festa del Capodanno sfalsato era
nell'
aia di casa sua. E lui, in realtà, si è fatto
vedere appena: un'
apparizione di cortesia, con il suo cilindro di paillettes striato
di colori squillanti, per poi rintanarsi in casa. La gente che
lì
cantava e ballava, aveva quasi tutta uno schiavo tra i suoi
antenati. Un tempo, infatti, qui ci si salvava solo se non si
era
né sani né forti. La memoria della tratta, a Ouidah,
la stanno
ricostruendo pezzo a pezzo, da poco. Per ora sono brandelli
ricomposti a fatica. Hanno cominciato nel ' 92 quando si è
deciso
di tenere qui il primo Raduno mondiale della Cultura Vudu proprio
mentre l' Unesco vi portava studiosi di tutto il mondo, gente
seria che sulla diaspora dei neri, ha i nervi scoperti e la
preparazione giusta per fare bilanci. In contemporanea hanno
chiamato gli artisti a costruire segnali forti, grimaldelli
per il
ricordo. Così, ora, ai bordi della strada rossa di terra
battuta
che gli schiavi incatenati - collari, manette ai polsi, un morso
cilindrico di legno tra i denti legato stretto dietro alla nuca
in
modo da non farli né parlare né urlare - dovevano
percorrere dal
deposito del buio (dove venivano ammassati per giorni, spesso
per
mesi, in attesa delle navi, fino a non capirci più nulla),
alla
spiaggia dove li imbarcavano, ci sono una decina di grandi
sculture in cemento dipinto. è una surreale Via Crucis
dove
camaleonti, amazzoni, uomini a tre teste, serpenti che si mordono
la coda - ciascuno con una sua simbologia ben precisa e con
uno
stile alla Niki de Saint- Phalle - rievocano protagonisti,
comprimari e vittime della tratta. Sulla pista, un grande albero.
C' è da sempre. è l' albero del ritorno: girandogli
intorno si era
sicuri che almeno l' anima sarebbe tornata a casa dopo che il
corpo chissà che fine aveva fatto. E, poco più
in là, un brutto
monumento quasi nasconde la scritta: "è questa la
fossa comune di
coloro che sono morti prima ancora di essere portati via".
Il
museo l' hanno sistemato nel vecchio forte portoghese, il San
Joao
Baptista, il più recente, del 1721. Quello francese e
quello
inglese erano troppo malridotti. Ora il San Joao racconta bene,
con povere cose, quel che successe. Vederli quei ferri, le catene,
i sigilli per marchiarli a fuoco... leggere la lettera ruffiana
del re locale a quello del Portogallo ("...augurandomi
che il
nostro commercio possa continuare nel migliore dei modi...).
Capire dalle riproduzioni di stampe d' epoca le prove e le
umiliazioni che gli schiavi dovevano subire al momento dell'
acquisto... Beh, tutto insieme, cambia l' umore. Li sdraiavano
nudi, uno serrato all' altro. Le donne pancia all' aria, gli
uomini ventre a terra. Poi, dopo le perquisizioni - l' esame
degli
occhi, dei denti, delle palle - c' erano le flessioni e, talvolta,
la scudisciata giusto così, per saggiarne il carattere.
Bisognava
pur sapere quel che si comprava... Ci si è divertito
Chatwin da
queste parti. Negli anni ' 70, vi si imbatté nel Viceré
di Ouidah:
quel Dom Francisco De Souza che, arrivato dal Brasile agli inizi
del ' 700, ottenne per decenni dalla corona di qui il monopolio
del commercio negriero. Gran bella storia, e lui gran
personaggio... Chatwin se ne innamorò e, dopo aver ribattezzato
il
"De Souza" in "da Silva", l' ha rifatta
merlettandoci sopra con
grande scrittura ma trattenendo la fantasia: "Ci sono piccoli
errori, qualche nome storpiato... ma tutto sommato è
ben fatto!
Per noi è stata una soddisfazione: ormai, la nostra famiglia
la
conoscono dappertutto" ride Martine De Souza, sesta generazione
dal negriero capostipite. "Quanti siamo oggi? Oddio..."
comincia
così con un calcolo da scacchiera cinese, un po' Chatwin,
un po'
Amado, un po' Buendia: "Allora: quaranta figli lui... ognuno
con
cinque figli almeno, per sei volte... duemila, diecimila,
cinquantamila...". Il trisavolo di Martine, il negriero
Dom
Francisco, ha un' aria simpatica e assomiglia a Garibaldi. Il
Museo di Ouidah ha un suo ritratto nella stanza di fianco a
quella
dei riti vudu, messa su per lo più con istantanee in
bianco e
nero, neppure troppo vecchie. A parte qualche totem, dei tamburi
e
un paio di strani scettri molto simili tra loro (con differenze
sostanziali, però: uno, il prete vudu, lo usava per togliere
il
vaiolo; l' altro, quello con una piccola ampolla che conteneva
polvere magica, per diffonderlo), sono soprattutto le immagini
a
raccontare dell' Internazionale Vudu, e della sua andata e,
talvolta, ritorno dal Brasile al seguito degli schiavi. Il rito
dei gemelli, per esempio: all' inizio qui non c' era; ora,
arrivato da Bahia con le immaginette dei Santi Cosma e Damiano,
si
svolge ogni prima domenica di ottobre radunando in piazza tutti
i
fratelli duplicati della regione. O il Carnevale... riti e roba
importati, insieme a quel fasto barocchetto per le abitazioni,
dei
neri liberati quando, in due ondate (nel 1835 dopo un'
insurrezione di schiavi, e nel 1888 dopo l' abolizione), il
Brasile cercò di sbarazzarsene rispedendoli Oltreoceano.
Intellettuali di qui da anni si danno da fare per convincere
il
governo che una storia importante quelle case raccontano, che
vederle venir giù una dopo l' altra - a Ouidah, a Porto
Novo, ad
Agouè... - è una vergogna. Il professor Bellarmin
C. Codo, storico
all' università di Cotonou lo ripete dall' 88 quando
abbatterono
la chiesa di Agoué, un gioiello coloniale. Ora, però,
con il
progettone Unesco sugli schiavi e le insistenti attenzioni di
Alain Godonou, che per conto dell' Iccrom si occupa, proprio
da
Porto Novo, di salvaguardia e formazione al restauro, qualche
buona speranza in più, c' è. Anche gli aiuti internazionali,
in
questo paese che ricco certo non è, aiutano: soldi Unesco,
300
mila dollari italiani, tecnici del Getty sono serviti in questi
anni a fare nuovo di zecca, ma all' antica, il Palazzo Reale
di
Abomey, la città dove risiedeva la corte, la Versailles
dell'
interno. Il re viveva in questi spazi fastosi - 44 ettari in
tutto, di palazzi, cortili enormi e tombe mausoleo - a dirigere
le
cacce all' uomo e a escogitare sanzioni per vendersi anche i
suoi.
All' amministrazione sovrintendevano le donne reali (madri,
sorelle) e le sue quaranta mogli, belle ragazze scelte nel regno
che, dopo quella fortuna iniziale, invecchiavano qui passando
il
resto della vita a verificare, giorno per giorno la salute dello
sposo sovrano. Non era solo amore... Morto lui, morte anche
loro,
per veleno, tutti insieme in un sepolcro comune. Fino all'
ecatombe, però, avevano un loro status, alto. Non bisogna
farsi
ingannare dalle immagini in cui, sputacchiera in mano, assistono
il re nella schifosa funzione: è che, lasciando qualcosa
di sé in
giro (uno sputo, un' orma, dei capelli...), si dava la possibilità
alle fattucchiere di gettare il malocchio al sovrano. Con tutto
quel che - anche per loro, vedove reali - sarebbe seguito
immediatamente. Per ora, il museo - ben tenuto, bene allestito
-
ha un suo algido stile internazionale che, presentando i tesori
di
corte (in attesa di esporre anche gli oggetti di vita comune),
tiene a bada le fantastiche storie di qui. Una sola vetrina,
ad
esempio, racconta le terribili amazzoni del re, cinquemila donnoni
di gran carattere che tutte le immagini ritraggono con delle
teste
tagliate in mano. Era un' invincibile armata che dipendeva dal
sovrano, bravissime a cacciare negri. E nulla si dice neppure
dello sporco traffico la cui regia proprio da questo palazzo
partiva. "Purtroppo - neppure oggi che il regno di Dahomey
è una
Repubblica democratica, e che si è scelta il nome mitico
di Benin
- non tutti sono d' accordo nel voler fare i conti con quel
nostro
terribile passato: è un capitolo vergognoso, ma vicinissimo,
ancora rovente nonostante gli anni passati" racconta Godonou.
E
aggiunge: "Figurarsi che, qualche anno fa, uno storico
aveva
deciso di approfondire la figura di un re che oggi nessun albero
dinastico ufficiale riporta mai, perché non solo fu l'
unico (tra
il Sette e l' 800) a tentare di uscire dal gioco della tratta,
ma
fu anche deposto. Il suo nome - Adandozan - è, ancora
oggi,
impronunciabile in tutta la zona intorno alla reggia dove
continuano a vivere, potentissime, le ex famiglie reali. Ebbene,
a
metà di quelle sue ricerche, il professore è sparito.
Non se ne è
mai più saputo nulla". Se sulla tratta si censura,
la reggia-museo
non nasconde, però, uno dei troni più macabri
mai costruiti: è
alto e inquietante di suo, ma a farlo ancora più spettacolare
sono
i quattro crani su cui poggia. Antichi nemici, capi di altre
tribù
sconfitte e vendute, che Guezo, il re dei re di qui, sottomise
per
l' eternità.
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