Gli Optional
A.A.A.Altri articoli di produzione propria

TESTATA:
Repubblica
DATA:
1/7/1997
PAGINA:
35
SEZIONE:
CULTURA
OCCHIELLO:
MILLE ANNI D' ARTE SACRA / IL TRIONFO DELL' ICONA. Salonicco espone
i tesori mai usciti dai Monasteri che hanno sempre proibito l'
accesso alle donne

TITOLO:
I SEGRETI DI MONTE ATHOS

SOMMARIO:
Bisanzio rivive attraverso il lavoro di questi monaci prodigiosi
Un luogo dove la pittura testimonia il legame con Dio

AUTORE:
Sergio Frau
TESTO:
Salonicco Muore Cristo, qui dentro - nelle sale del Museo
Bizantino di Salonicco - mille volte. Si affloscia - carcassa
stremata - appeso alla croce come ai ganci di un macello. Pesano,
in mano ai suoi che lo stanno tirando giù, quegli arti senza vita
- bruni, grigiastri, chiaroscurati - tratteggiati con amore. E poi
risorge altre mille volte, dall' oro, nel turchino, con tutti i
colori della gioia. E resuscita cento Lazzari. E benedice mille
volte. E lo fa non solo dalle icone, ma anche dai mosaici che
brillano sotto i riflettori, negli affreschi, dai codici miniati,
sugli avori, perfino dai ricami, dai calici e dai piatti sbalzati
in quell' argento che ai monaci dei venti monasteri di Monte Athos
non è mai mancato. E' la prima volta che i monaci fanno uscire
queste loro meraviglie dal Sacro Monte dove più di mille anni fa
si arroccarono per continuare a credere in Dio e a dipingerne con
santa pazienza le storie a modo loro, con ortodossia. Un monastero
dietro l' altro nei secoli, con loro dentro a fare la vita dell'
anno Mille: pregare gran parte del giorno e della notte, lavorare
per tirare avanti, studiare, rendere sempre più belle quelle loro
dimore nate folli per proteggerli e cresciute a dismisura per
farli sentire sempre più vicini a Dio, stando bene attenti, però,
che il mondo là fuori, nel frattempo, non tirasse a fregarli. E'
una strana trappola sacra quella che Salonicco ha organizzato per
celebrare il suo scettro di "Capitale culturale europea '97", l'
investitura Cee che ogni anno distribuisce soldi e gratificazioni
in giro per il Vecchio Continente. Nei piani alti del brutto museo
voluto qualche anno fa da Melina Mercouri hanno stipato quasi un
migliaio di pezzi che raccontano bene mille anni di arte sacra
dell' Athos. In un' unica sala centinaia di occhi - di Cristo, dei
Santi, dei fondatori dei monasteri, dei martiri, dei miracolati...
- ti si puntano addosso, tutti insieme, tutti intorno,
dappertutto. E all' inizio, con le luci ben studiate, vedi occhi e
oro. Nient' altro. Solo quando poi ci si avvicina, e li si scruta
uno per uno, quei volti ipnotici raccontano la loro storia sepolta
nei fondali, nascosta in piccoli segni in codice, nei bozzetti
laterali miniaturizzati che non vogliono mai rubare la scena ai
protagonisti.
Iniziano così, da quegli occhi bistrati che tanto assomigliano
agli sguardi morti del Fayum, le sale sorprendenti di questa
mostra che invece parte lenta, inadeguata, con sole cinque
maquettes e una ventina di foto a raccontare le bizzarrie
architettoniche del Sacro Monte e, più in là, una cinquantina di
grandi diapositive a spiegare di che paradiso naturalistico si
tratti. I Tesori di Monte Athos, quelli che danno il titolo alla
mostra, arrivano a sorpresa subito dopo. Trattative estenuanti,
qualche ricatto dell' ultima ora al governo greco che cercava di
risparmiare sul prezzo che i monaci (proprietari di terre, case,
di mezza Creta, di mezza Calcidica, delle zone buone di Salonicco,
con fama di attentissimi e rapaci amministratori) richiedevano.
Poi, finalmente - ma solo poche settimane fa - l' accordo
definitivo sui 7 miliardi e mezzo di dracme (una cinquantina di
miliardi) ai monasteri per i loro restauri, e i diritti sui
cataloghi, sui video, sui biglietti... E, con l' accordo, il via a
questa esposizione appena aperta che rischia di far sfigurare l'
altra dedicata a Bisanzio dal Metropolitan di New York con i soldi
di una banca-mecenate che però non è riuscita ad avere abbastanza
icone per raccontare davvero le meraviglie di quest' arte.
Qui, invece, tappezzano e ritmano il percorso verso il lieto fine:
Cristo non poteva non morire in modo così terribile, umiliante -
con sua madre straziata, dolore senza più dignità, che si contorce
e urla ai suoi piedi e sviene, tutt' uno con le altre donne lì
intorno - se si voleva poi che l' esplosione di gioia, pace e
serenità che accompagna la resurrezione funzionasse davvero. E con
la fede che aiuta ecco allora il trionfo e le altre icone che
raccontano tutt' altre storie. Viste insieme creano un surreale,
prodigioso pantheon che i santi artisti vollero un po' pazzo:
angeli dalle dieci ali rotanti, fondali scarlatti dove le montagne
- come giottesche - sembrano però graffiate da altri rossi
vermigli, ghirigori di santi in formazione che arrivano volando
con le loro corti di leoni ammansiti, draghi uccisi, acque domate,
roghi che li avevano risparmiati, a far capire che il virtuale ha
una lunga storia.
Effetti, effettoni, effettacci... Con quei volti beati che
continuano a piantarti addosso i loro sguardi come per convincerti
di credere, costi quel che costi. Bisogna però immaginarseli i
destinatari di tanta efficacia artistica, di queste prospettive
che cercano di trascinarti dentro il dipinto: erano contadini e
signori che dei prodigi nei Vangeli non avevano mai letto nulla e
che questi fumetti sacri - in cui le scritte essenziali si fanno
anch' esse decoro - avevano il compito di convertire, coinvolgere,
tenere legati per sempre. E ci riuscivano. E ci riescono: non c' è
casa, da qui a Mosca, senza le sue icone che si alternano sull'
altare e si danno il cambio in base alle feste, alle speranze e
alle paure della famiglia che le possiede. Secco secco, con la
barba a punta che non finisce mai, Sant' Eutimio il grande. Più in
là San Giovanni, dall' espressione sempre serena in tutte le icone
nonostante ci sia sempre in giro per il quadro quell' altra sua
testa mozzata che ogni artista piazza dove vuole. Spesso in trio,
Santo Stefano, San Nicola, San Giovanni Teologo... a ciascuno il
suo: ogni monaco, ma anche ogni ortodosso, ha le sue preferenze, i
suoi protettori. A tutti, però, un Crocefisso e una Madonna con il
Bambino, un Cristo benedicente...
Immagini d' amor materno, filiale, sacro. Amori meno santi?
Nessuno, ovviamente. Anzi uno si sentirebbe del tutto sacrilego
solo a notarlo se non si fosse visto - all' Archeologico di
Salonicco - il grande mosaico che, sfrontato, esalta nei suoi
riquadri dèi e miti di queste zone non lontane dall' Olimpo,
trionfanti solo qualche secolo prima del Cristianesimo: in una
decina di metri quadri c' è Dioniso che illanguidisce con Arianna,
Zeus-aquila che rapisce un Ganimede neppure troppo preoccupato.
Apollo e Dafne con lui che sembra stia per darsi un gran da fare.
Eppure, di amor profano e di qualche sua possibile variazione sul
tema, anche i monaci dell' Athos qualcosa, almeno mille anni fa,
dovevano sapere. Come spiegarsi, altrimenti, quella bolla firmata
nel 1046 dall' imperatore Costantino IX, arrivato sull' Athos come
un fulmine, che dando l' indipendenza amministrativa all' intera
zona proibiva il Sacro Monte non solo alle donne, ma anche agli
imberbi e persino a tutti gli animali di sesso femminile. Galline
escluse, però, perché il tuorlo delle loro uova, servendo a
fissare le tempere delle icone, ne fecero cittadine onorarie dell'
Athos insieme alle gatte antitopo appena ammesse solo vent' anni
fa. Questa che per creare le icone si usasse tutta roba che
arrivava dalla natura, come una sintesi del creato in gloria a
Dio, contribuì a dare ancor più sacralità a queste immagini. La
loro vera magia, però, è di essere sempre state considerate un
medium con la divinità, come le reliquie: Dio si è fatto Cristo
per salvarci, Cristo e i suoi si fanno icona per rinnovare il
miracolo, tramiti per il soprannaturale. Fu così che il culto
delle immagini si legò al dogma dell' incarnazione: per questo
valeva la pena farsi strappare via gli occhi, arrossire le mani,
tagliare la gola, o scappare sui monti, ma non tradire e
continuare a dipingerle e prepararle in quel secolo terribile
voluto dall' imperatore Leone III che, nel 726, maledisse e
perseguitò come idolatra chi venerava le sante Tavole.
Così, da allora, nelle icone di Monte Athos non c' è presente,
passato prossimo o remoto: cambiano i secoli dell' esecuzione,
alcune coreografie, ma lo spirito che le pervade è uguale da
sempre. E' Bisanzio che vive ancora. Spiega Nikos Nikonanos,
storico dell' arte, uno dei curatori della mostra: "Certo,
conoscendo il Rinascimento italiano, qualche monaco azzardò
innovazioni, mai però sconvolgenti: rispettando gerarchie e
divinità magari poi sperimentava - timidamente, ai bordi o sullo
sfondo - trovate inedite rispetto alla tradizione. Dettagli che
non tradirono i canoni ma che oggi a noi servono moltissimo per le
datazioni, le attribuzioni, per ricostruire storia e geografia
delle influenze: Costantinopoli, Roma, Ravenna, Venezia-Creta, la
Romania, la Grande Russia, con i pittori più bravi che li trovi un
po' ovunque...". E in mostra alla fine c' è modo di riconoscerli:
Vatopedi con quelle sue tavole enormi a fondo d' oro mai viste
così grandi da nessuna parte; Teofane che a Creta fece scuola e
che sapeva usare il rosso come nessun altro... E i russi con
quella loro mania di affastellare in un' unica composizione
quadrettata 365 santi 365 e incorniciarli con 60 Madonne 60,
ognuna diversa dall' altra, a far da bordo. Dopo sei sale così, si
arriva all' ultima. Vuota. Anzi c' è un' unica icona. Non sanno se
è del Quattrocento o del Cinquecento. Pensano sia stata fatta a
Creta e arrivata chissà come all' Athos. E' alta sì e no un palmo.
Pietà si chiama e occupa con il suo dolore la grande sala quasi
buia. La Madre si stringe alla guancia il viso del figlio morto
che finalmente, qui, ora, sembra quasi dormire, cullato. Gli occhi
di Maria sono due fessure che fanno solo intuire il pianto. Ultime
coccole di una mamma alla sua creatura. Difficile smettere di
guardarli.
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