Gli Optional
A.A.A.Altri articoli di produzione propria

TESTATA:
REPUBBLICA
DATA:
12/2/1998
PAGINA:
32- 33
SEZIONE:
CULTURA
OCCHIELLO:
LE VIE DEGLI SCHIAVI/ 3
TITOLO:
L' Europa che rapì i neri
SOMMARIO:
La costa del Ghana è sfrangiata dalle numerose fortezze che i
portoghesi e gli olandesi costruirono per la raccolta degli
schiavi. Qui iniziava la tratta... Molti di quei castelli oggi
vanno in rovina. Altri trasformati in prigioni e case di riposo.
Due di essi però sono diventati musei per ricordare
AUTORE:
di SERGIO FRAU
TESTO:
Elmina (Ghana) - Bianco, nero... Persino l' architettura della
Tratta si gioca su questi due colori. Bianchissimo, maestoso,
tirato a calce, il Castello di Elmina sorveglia l' Oceano, con le
sue torri. Il cielo è appena più opaco, luminoso grigio perla. A
farlo così, da dicembre a febbraio, è l' Harmattan, il vento del
Sahara: trascina fin qui, sulla Costa degli Schiavi e dell' Oro,
nel Golfo di Guinea, il suo pulviscolo, velando il sole, bianco e
lucente, ma come neon. E bianchi, per secoli, sono stati i padroni
del Castello: bianchi portoghesi i primi, che lo tirarono su nel
1482; bianchi olandesi i secondi, che lo ingrandirono a dismisura,
com' è oggi, per farne un opificio della Tratta; bianchi di Sua
Maestà britannica, poi, dal 1872 fino al marzo 1957, quando il
Ghana divenne indipendente. Nera, nerissima la sua storia: qui
vennero ammassati e imbarcati migliaia di schiavi. E buio pesto
nel suo ventre: i magazzini sotterranei degli uomini da una parte;
quello delle donne dall' altra, con un cortiletto sotto il
ballatoio del capitano. Da lì i capi della postazione - dai loro
alloggiamenti con la carta fiorata alle pareti - se avevano voglia
ne sceglievano una per la notte: se, poi, prima che arrivasse la
nave ci si accorgeva che era rimasta incinta, meglio per lei, era
libera. Non una fessura, là sotto. Aria stagnante persino vuoti,
come sono oggi. La mancanza totale di luce faceva parte delle
tecniche di produzione: qui i neri, catturati da altri neri,
venivano trasformati in schiavi. Si provvedeva a rimbambirli,
selezionarli, a stoccarli, marchiarli, battezzarli, per poi
spingerli su uno scivolo di pietra che li saettava nelle piroghe
giù di sotto, pronte a far la spola con i vascelli da riempire,
all' ancora nel mare di fronte. Era l' Europa unita e cristiana a
far tutto ciò. Sulla cartina la costa del Ghana - 560 chilometri
in tutto - è sfrangiata da 48 nomi, tutte fortezze europee,
altrettanti imbarcaderi per vascelli negrieri, a una decina di
chilometri uno dall' altro: Fort Apollonia (prima olandese, poi
inglese), San Anthony (prima portoghese, poi olandese), Fort
Hollandia (poi ceduto alla Gran Bretagna), Fort Orange, Fort Saint
Sebastian, Chriastianborg Castle (in onore di Cristiano V di
Danimarca), Fort James... Dipendeva dall' imbarco, il marchio. Chi
partiva da un Forte inglese, ad esempio, si ritrovava incisa nella
carne viva la sigla "Dy", ovvero Duca di York, mente e patron
della Company of Royal Adventures in Africa. Le fortezze del
Ghana hanno una loro possente tetraggine. Fanno triste persino il
mare. Molte sono in rovina. Altre le hanno riutilizzate per farne
prigioni, case di riposo, persino una gast-house. Due - Capo Coast
ed Elmina - sono oggi musei, veri mausolei di dolore. Da gennaio a
ottobre del ' 97, 35 mila persone hanno visitato il primo.
Ventottomila il secondo. Per arrivarci, dal Benin, ci sono due
trecento chilometri di macchina su una strada parallela alla costa
e due frontiere. Con il Togo prima, con il Ghana poi. Trappole di
burocrazia che ti catturano ore e ore. "Un percorso che, comunque,
va fatto" aveva consigliato Bellarmin C. Codo, storico "se non
altro per rendersi conto di come lo schiavismo, da queste parti,
oltre alla storia abbia sconvolto anche la nostra geografia: ha
disegnato città, spostato popoli, svuotato terre. Cotonou, per
esempio, è nata per avere un porto alternativo a Ouidah nel caso
gli inglesi riuscissero a bloccare lì la tratta. E Ganviè, allora?
Oggi tutti la chiamano la Venezia dell' Africa... Ci si va a far
foto al mercato sull' acqua, ci si diverte a vedere i bambini che
a tre anni sfrecciano da soli in piroga. Ma nessuno spiega mai che
quella gente mica ha deciso di vivere in palude per romanticismo:
è stata una colossale, drammatica fuga dalle armate dei Re di
Dahomey a caccia di schiavi, a spingerli fin là, ai confini di
tutto". Ganviè è strana davvero, con le sue palafitte tutte
stecchi che sembrano nidi, di quelli che gli uccelli acquatici
nascondono in laguna rimediando in giro sterpaglia dove capita.
Anche la gente di qui, da tre secoli ormai, è costretta a fare
così: la paglia per il tetto la comprano; per il legno fanno
spedizioni apposta con le piroghe più grandi verso l' interno.
Terra e fango se l' inventano, raschiandoli dai fondali e
ammassandone sotto la casa giusto quel po' che basta per insegnare
ai bambini a camminare. Tutto il resto si svolge sull' acqua,
nell' acqua. Ci sono persino un Gran Canal e la bruma, tanto per
dimostrare che il gemellaggio con Venezia non è solo uno slogan.
La strada costiera per arrivare in Ghana dimentica troppo spesso
il mare per essere davvero bella. In gran parte è stretta dal
traffico di bidonville che vendono tutto. Frecce, pubblicità e
insegne dipinte la fanno unica: metodisti, evangelici, testimoni
di Geova, pentecostali, contendono fedeli ai barbieri che giurano
capelli lisci e alle case del vudu dove dalla testa di cane secca
alla coda di elefante all' iguana già in polvere, si trova tutta
l' Africa, ma a pezzi. Arrivati a Elmina, tutto intorno al
Castello, c' è un paesotto coloniale dal porto grande e dai colori
strillati, quasi Bahia: è una sarabanda di facce, di etnie, di
meticci figli dei figli di quel ballatoio e di quei capitani e di
quelle ragazze che non potevano dire no. Stessa razze, stesse
facce intorno a Cape Coast Castle. Hanno visto i bianchi all'
opera e - si capisce - non lo dimenticano. Le attraversa allegra,
scendendo dal pulmino, una combriccola di neri americani in
pellegrinaggio qui. Sono grassi e ricchi. E ridono, e scherzano.
Rivederli dopo la visita al museo sembrano altri: nessuno di loro
sorride più, sono tutti un po' più vecchi. E' il Museo che ha una
sua efficacia... Le prime sale descrivono l' industria dello
schiavo qui. Poi un locale cupo, buio, più basso degli altri,
toglie il fiato. Sembra rubarti l' aria. Il doppio tavolato fa
capire come e dove e in quanti venivano stipati i neri durante il
viaggio. Si esce e si respira. Sbagliato! Purtroppo si è già in
America... Dopo la fatica nei campi, e le orecchie mozzate (se
tentavi la fuga), e le impiccaggioni (se la tentavi di nuovo), e
la vita corta (sette anni la media di sopravvivenza di un nero
schiavo), una parete intera del museo l' hanno lasciata all'
orgoglio nero: un pantheon di miti, martiri, e popstar - dai primi
ribelli a Malcolm X, ad Angela Davies, a Mohamed Alì, a Bob Marley
- tutti insieme, faccia a faccia, in fotografie bianche e nere, a
ricordare quanto è duro essere neri ed esser stati schiavi. Ci si
è commosso pure Stevie Wonder, qui dentro. E Dionne Warwick,
allora... Di getto aveva promesso un concertone per raccogliere
fondi per il Museo. "Il concerto poi lo fece, ma i soldi non ci
sono mai arrivati..." racconta il direttore Raymond O. Agbo
costretto a fare i salti mortali per tenere a posto i due
castelli, con il budget che ha. E aggiunge: "E' quasi un destino:
anni fa l' Unesco aveva dato 12 mila dollari per i restauri. Poi,
però, sono finiti nel calderone del governo e noi non abbiamo
visto un soldo. Figurarsi quanto ci avrebbero fatto comodo con
tutti i castelli che hanno bisogno di essere rimessi in sesto
lungo la costa...". Castelli di un' Europa spietata che forse la
nuova Europa potrebbe aiutare a salvare. Qui, la Tratta in soli
dieci mesi assicurava agli armatori delle nostre navi guadagni dal
300 all' 800 per cento del capitale investito. Un industria che
non poteva, certo, perder colpi per le crisi di coscienza di
qualche re locale. Perso uno, si smetteva di rifornirlo ed era
finito: avanti un altro a fare il lavoro sporco! Con gli Ashanti,
però, i bianchi si trovarono davvero bene. Avevano cominciato a
trattare con le genti di qui i portoghesi già dal 1471 quando
saggiavano, un viaggio dopo l' altro, fin dove potevano spingersi
verso sud, lungo l' Africa. Colombo, allora, ancora le vagheggiava
soltanto le sue follie; Vasco De Gama veleggiava tranquillo da
qualche altra parte; i neri non servivano ancora ai campi d'
America. E loro, i portoghesi, avevano ferro, stoffe, vetro e
puttanate da vendere, mentre le genti dell' interno erano forti in
oro, avorio, pelli di leopardo. Figurarsi che Elmina, a fine '
400, si chiamava ancora Sao Jorge de las Minas (delle miniere) e
la chiesetta al centro del suo cortile serviva solo per dir messa.
Certo, capirono presto che a portare su a Lisbona un carico di
neri si era certi di far soldi: a fine ' 500 un decimo della
capitale portoghese era fatto da schiavi neri, tocco d' esotismo
per chi poteva permetterselo. Il mercato americano ancora non
tirava... Quando poi successe, gli olandesi trasformarono quella
chiesetta in mercato coperto di schiavi: da piccole feritoie
segrete, senza neppure farsi vedere, gli acquirenti vi sceglievano
i capi migliori. I clienti più esigenti, però, ci entravano
dentro: controllavano la merce, ne assaggiavano con un dito il
sudore per capire se la pelle di quei neri in vendita era lucente
di suo o se l' avevano tirata a lucido con l' olio, per fregarli.
O anche strizzavano il capezzolo alle donne: se usciva latte
avevano partorito da poco e, a quel punto, si poteva pagar meno. E
sì, ci mise quasi un secolo l' ingranaggio della Tratta per
partire bene. Del resto bisognava pure avere il tempo per capire
che sul lavoro gli Indios d' America non valevano niente. Facevano
pena, si ammalavano, morivano uno dopo l' altro. S' intristivano,
si suicidavano: un disastro, insomma. Chissà se è vero quel che si
scrive: che in soli 50 anni spagnoli la popolazione indigena
caraibica e messicana scese da 80 a 10 milioni di individui. Si
commosse presto un sivigliano, figlio di un compagno di viaggio di
Colombo, Bartolomé de Las Casas, vescovo in Chiapas e sfoderò un'
idea di cui si pentì ma che, al momento, gli sembrò geniale:
perché non usare i negri, allora. Tutti d' accordo? Tutti d'
accordo! Quando con il ' 700 il mercato degli schiavi andò alle
stelle (almeno sette milioni di persone furono deportate con
frenetica efficienza in quel secolo, da qui, dall' Angola, dal
Mozambico, da Zanzibar...) la collaborazione già sperimentata con
gli Ashanti, venne buona: alla caccia grossa ci pensavano loro,
facendo anche incetta, però, dei neri catturati da altri, in modo
da tenere in pugno prezzi e modalità del commercio. Affari d' oro,
per secoli. E d' oro era Kumasì, la capitale Ashanti dell'
interno. E' oro ruvido a chili, preso nelle miniere dei dintorni e
fuso a cera persa in mille monili, quel che oggi fa strabiliante
una sala del vecchio palazzetto del re. Lui - Nana Otumfour Opuku
Ware II, che è ancora un potenza qui - vive nella casa accanto.
Ora esce di rado: è anziano, sta poco bene. Quando lo fa, però, lo
fa alla grande, all' antica, in processione: laminato d' oro,
portantina, cortigiani con i tamburi, il seguito tutto
ingioiellato, le mogli schierate, l' ombrellone del potere a
ripararlo dal sole, il portavoce che ripete le sue parole
sussurrate... Sembra archeologia. Archeologia viva, però: fino a
qualche anno fa Sua Maestà è stato ambasciatore a Roma e quando il
Papa è venuto in Ghana è lui che ha voluto omaggiare con una
visita. (3. continua)
DIDASCALIA:
Una scena di pesca nel Mali. Il Castello di Elmina, nel Ghana. Le
manette che servivano per tenere legati gli schiavi
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