Gli Optional
A.A.A.Altri articoli di produzione propria

TESTATA:
REPUBBLICA
DATA:
3/3/1998
PAGINA:
38- 39
SEZIONE:
CULTURA
OCCHIELLO:
LE VIE DEGLI SCHIAVI/ 4
Mille anni e milioni di neri deportati... Partivano da questa
città di sabbia ai bordi meridionali del Sahara le spedizioni per
i mercati del Mediterraneo
TITOLO:
TIMBUCTU' le carovane del dolore
SOMMARIO:
Il deserto selezionava i prigionieri destinati a sopravvivere. Era
l' altra faccia della tratta: quella araba. Nell' 89 le sue
moschee e i suoi palazzi vennero dichiarati dall' Unesco
Patrimonio mondiale dell' umanità
AUTORE:
di SERGIO FRAU
TESTO:
Timbuctù (Mali) - I Tuareg se lo sono ripetuti di padre in figlio:
"C' è un rimedio alla povertà: un viaggio a Timbuctù". O anche:
"Vuoi farti ricco? Vendi libri a Timbuctù". E pure: "Ci si può
arrivare, da Agadez, senza mai posare il piede sulla sabbia: basta
camminare sugli scheletri degli schiavi morti lì, lungo la pista".
Di questi tre detti, solo quello sui libri è certamente antico: ha
almeno cinque secoli. Risale ai tempi in cui, tra il 1325 e fino a
quel 1591 (con i marocchini che arrivano giù a conquistarla),
Timbuctù - la città bazaar, il porto sul Sahara - divenne anche il
posto degli studi, una delle università più importanti del mondo.
"Figurarsi che dei centomila abitanti che allora aveva, 25 mila
erano studenti o professori", racconta Salem Ould Elhady,
istitutore in città con una passione per la storia e le storie di
qui. E spiega: "Erano pronti a pagare qualsiasi cifra per un buon
libro che le carovane portassero fin quaggiù: Platone e gli altri
classici (che gli arabi avevano ricopiato pagina per pagina),
Avicenna, Corani miniati, trattati di algebra, fisica e ottica...
Fu quello uno dei momenti più magici per il Campo di Buctù". E
parte spedito, il professore, con il racconto: "Qualche secolo
prima, alla fine del Mille, una vecchia schiava - Buctù, appunto -
si perse, qui, ai margini meridionali del deserto. La famiglia
disperata la cercava. Lei, invece, si era arrangiata benissimo:
aveva trovato un pozzo dall' acqua buona, c' era la possibilità di
coltivare quel po' di angurie e zucche che le bastavano, e c'
erano i nomadi che, esausti dalla traversata, in cambio delle sue
cure ai cammelli, finivano sempre per regalarle qualcosa. Dai e
dai, intorno a Buctù e al suo pozzo si formò prima un villaggio,
poi una città di verde e case in terra cruda: il paradiso per chi
arrivava dopo mesi di traversata; l' ultima frontiera per chi
doveva partire verso quello che voi occidentali chiamavate il
Grande Vuoto, il Deserto". A guardare le antiche mappe - vere
carte nautiche per quel mare di sabbia grande quasi come il
Mediterraneo - ci si rende conto che tutte le rotte portavano qui
al Sahel, la Riva: quella del Cairo, dell' Arabia, del Marocco e
della Libia... Sale e stoffe e vetro e libri dal Nord e da Est in
cambio di pelli, avorio e schiavi che arrivavano al suo mercato
dal Sud, sul fiume, con il Niger. Ora - nel progettone Unesco che
si propone di salvare i luoghi di memoria dello schiavismo -
Timbuctù ha il compito di raccontare (insieme all' isoletta di
Zanzibar e ai forti del Mozambico, dall' altra parte dell' Africa)
un capitolo parallelo, spesso, però, convergente a quello della
Tratta atlantica: lo schiavismo degli arabi. Hai voglia a dire -
come fanno loro - che lo schiavismo c' era da sempre; che già la
Bibbia lo benediceva; che qui è stato solo più umano; che bastava
convertirsi all' Islam e non si veniva più venduti; che il
fenomeno riguardò per lo più i pagani animisti e non ebrei e
cristiani; e che fu il Corano a proibire le frustate; e che le
galere le avevamo noi, mica loro; e che, giusto 150 anni fa - in
contemporanea con la Francia - anche qui, come in tutte le terre
di Allah, i muezzin proclamarono l' abolizione della schiavitù...
Tutto vero, certo, ma... Gli schiavi arrivavano qui ben incatenati
dalle terre più nere. Da Djenné, soprattutto, 400 chilometri più
in giù, con piroghe lunghissime e strette, simili a quelle che
scivolano sul Niger ancora oggi. Qui non c' era la caccia grossa
alle tribù come nel Dahomey o con gli Ashanti; non si facevano le
guerre solo per prender schiavi e rivenderli: si facevano guerre
e, se si vincevano, ci si impadroniva di tutto, bottino e persone,
come da sempre, ovunque. Una volta che a casa, poi, c' erano
abbastanza servi per una vita comoda, e nei campi gente
sufficiente a lavorarli, l' eccedenza di servitù veniva venduta
sul mercato di qui, per l' esportazione. Tutto un po' più
artigianale (e meno documentato), rispetto all' efficienza
industriale ed europea in voga sulla Costa degli Schiavi, ma
comunque con cifre (ipotizzate) di tutto rispetto: sette milioni e
mezzo i deportati via Sahara, nei secoli fino a fine ' 800. Solo i
più fortunati venivano comprati dagli abitanti della città
mercato, e, se non altro, si risparmiavano la marcia nel deserto;
quelli contro i quali il destino aveva deciso di accanirsi,
spietato, venivano portati al massacro nelle cave di sale di
Taudeni che mangiavano via gli occhi. Tutti gli altri - donne e
adolescenti, soprattutto - andavano a scurire le pelli
mediterranee: Marocco, Egitto, Arabia, o il bazaar di Istanbul,
dove lo zar Pietro il Grande si procurò, ragazzino, il bisnonno
nero di Puskin. Ma finivano anche in Spagna, Portogallo, a Genova.
E, dal ' 600 in poi, nelle Americhe... Uno schiavo poteva valere
tre asini, o due buoi, o un terzo di cavallo normale; ce ne
volevano 50 per avere in cambio un purosangue arabo. I neri
castrati - vezzo di ogni harem che volesse darsi un certo tono -
costavano il doppio di uno schiavo normale: era per lo spreco nel
fabbricarli, spesso infatti l' operazione risultava mortale. Non
erano selezionati prima gli schiavi: era il Sahara - da percorrere
a piedi, legati a due a due, dietro ai dromedari dei tuareg e
delle merci - a decidere chi poteva vivere. Timbuctù è, da
sempre, color deserto. E' fatta di deserto. La sabbia ora, però,
da qualche anno gli entra dentro, dappertutto. Onde di Sahara,
grandi dune pronte ad assalirla, la stringono tutta intorno. E lei
dentro. Circondata, screpolata, crepata dal vento che qui lavora
di smeriglio sulle sue costruzioni di terra cruda e calcare
biondo. Crolla tutta. Regge solo il mito. E' anche quello ci
riesce a stento. Non fosse per il suo splendido passato... E'
talmente vivo, tra la gente di qui, che lo fanno sembrare ieri. E,
invece, sono trascorsi quasi sette secoli da quando Kanku Mussa,
l' imperatore del grande Mali (una colossale fascia di terre ed
etnie larga tremila chilometri e alta anche 1500) passò di qui per
andare alla Mecca. Era il 1324. Che viaggio, quel viaggio... Ne
parlarono tutti. I veneziani, poi, ne ciacolarono in ogni porto d'
Occidente: lui, l' imperatore, a cavallo scortato da 60 mila
persone, diecimila cammelli e 500 schiavi dai rasi ricamati che
portavano, ciascuno, una barra d' oro di due chili e mezzo. Altri
sacchi di polvere d' oro caricati sui cammelli... E dove passava,
ne spendeva e ne regalava tanto da farne crollare il prezzo lungo
tutta la scia del suo viaggio. Di ritorno, l' anno dopo, con un
seguito di artisti, giuristi, intellettuali assoldati lungo il
percorso, decise di regalare a Timbuctù una moschea che diventasse
leggenda. Arruolò un folle visionario, metà architetto, metà
poeta, tal Es Saheli, arabo di Spagna, che studiò per bene la
situazione: vide che di pietre in giro non ce n' erano, così
decise di tirarla su in terra cruda la sua moschea ma lavorata in
modo pazzo con pinnacoli e grandiosità che qui nel deserto non si
erano mai viste. Tutte le moschee del Sahel, da allora, le
somigliano. Dentro - a visitarla, oggi, quando non c' è la
preghiera che ogni venerdì l' affolla di fedeli - sorprende: è
freschissima; una selva di grandi piloni contende lo spazio al
pavimento di terra battuta coperto da una coltre di sabbia che fa
da tappeto. Piagato da brutte rughe, il suo minareto -
inutilizzato dall' invenzione degli altoparlanti in poi - non vede
né muezzin né restauri da anni. E sì che è il luogo più santo di
una città che tutti dovrebbero avere a cuore. Figurarsi che l'
Unesco l' ha dichiarata Patrimonio mondiale dell' Umanità già
nell' 89, insieme a Djenné, e che vi si fanno stage, check up,
corsi di manutenzione, seminari a tutto spiano, roba da milioni e
milioni. Eppure... "Parole! Da decenni, ormai, soprattutto
parole: poco di concreto!" dice, amaro, El Boukhari Ben Essayouti,
direttore del Museo di qui, una costruzione tirata su a un passo
dal vecchio pozzo di Buctù e riempita con misere, vecchie cose, le
poche strappate agli antiquari che, qui, in zona drenano tutto per
farlo riapparire a caro prezzo nelle gallerie di Roma, Parigi, New
York. Si sfoga il direttore: "I superesperti del restauro arrivano
qui, blindati, di corsa, già con le loro idee in testa. Al massimo
vedono qualche amministratore a cui poi elargiranno un po' di
soldi... Parlassero con la gente di qui, invece... La moschea che
si disfa, vuol far capire che è Timbuctu che sta morendo. E
soprattutto che muore di sete da quando 25 anni fa il Canale degli
Ippopotami, il Bajendè, che portava fino in centro l' acqua e le
piroghe del Niger, si è prosciugato. La sabbia è corsa a
riempirlo. Gli orti si sono seccati. La gente, da allora, se ne
va, scappa. E le case, abbandonate, vengono giù, una dopo l'
altra. E' lì, al canale, che bisogna intervenire per riallacciare
davvero Timbuctù alla sua storia!". Nel museo di monsieur
Essayouti c' è uno strano letto tuareg che racconta una sua strana
storia: cinque lunghi bastoni paralleli si appoggiano,
perpendicolarmente, ad altri due più corti che finiscono
allargandosi, scolpiti, con due rondelle di una quindicina di
centimetri di diametro. E' grande, sì e no, come una branda
piccola. Quelle rondelle non servono solo a tener fermi i bastoni
lunghi su cui il tuareg dormiva, ma anche al suo schiavo, il
bellà, che - spingendole con il piede, avanti e indietro - cullava
come si deve il suo padrone. Roba recente... Del resto, subito di
là dalla frontiera, in Mauritania, almeno a parole, la schiavitù è
stata abolita solo nel 1981, anche se tutti dicono che - davvero
davvero - lì non finirà mai. Ma lo devono sussurrare, e sottovoce:
giusto due settimane fa hanno arrestato due militanti di S.O.S.
Esclavage che si erano sfogati ai microfoni di una radio europea.
E, a pochi chilometri da Timbuctù, c' è un piccolo e povero
labirinto di fango e paglia: Gnalà, il villaggio degli schiavi.
"Schiavi noi? No, non più!", ribatte Amadu Bokum, il capo.
Tossisce e scatarra, e sul caftano indossa un cappotto occidentale
che dovrebbe curargli la brutta bronchite che lo squassa. L' hanno
nominato capo i francesi prima di andarsene e lo è ancora, 38 anni
dopo. Spiega che, sì, i nonni di tutti loro erano servi, che in
passato c' era quest' usanza, ma che ora si lavora per la gente di
Timbuctù solo una, due volte l' anno, quando chiamano... Soldi?
"Niente, ovviamente. Del resto" spiega "ci hanno dato campi e
fiducia e libertà. Non possiamo tradire quel patto". Strano
destino per Timbuctù: da una schiava era nata, con gli schiavi si
fece grande e bella. Ma fu poi proprio lo schiavismo dei bianchi a
condannarla al declino. Nel Sei, Settecento la via delle Indie era
ormai aperta: quel che le Crociate avevano tentato di fare per
eliminare il monopolio degli arabi sulle merci d' Oriente, era
riuscito a Vasco De Gama e, dietro di lui, a tutti gli altri. Le
navi d' Europa dalle fortezze sulla Costa degli Schiavi e tutt'
intorno all' Africa, imbarcavano avori e oro, e dalle Indie le
spezie, senza più bisogno che fossero carovane di migliaia di
dromedari a farne trasporto nel mare di sabbia. Il mondo era,
ormai, un altro. Timbuctù cominciò allora a morire. I negrieri che
rifornivano i bianchi invasero, con guerre, reti e moschetti, le
terre che il suo imperatore, Kanku Mussa, aveva traversato con la
sua processione tutta d' oro. Kanku Mussa era un Mandingo,
schiatta di imperatori che i cantastorie di qui non hanno mai
dimenticato. Divenne famosa solo come razza di schiavi. Sempre la
prima a essere venduta nelle aste d' America. Una parte degli
antichi libri che - prima con lui, poi con i secoli - arrivarono a
Timbuctù, sono ora stipati al Centro Baba. La sabbia li assedia,
non hanno fotocopiatrici, mancano i soldi per lavorare davvero. Né
l' Islam dei Petrodollari, né l' Unesco (che questo centro 30 anni
fa ha creato) se ne curano. E il Mali è ancora troppo povero per
salvare da solo la sua grande storia.
(4. Continua)

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