Gli Optional
A.A.A.Altri articoli di produzione propria

TESTATA:
REPUBBLICA
DATA:
12/3/1998
PAGINA:
37
SEZIONE:
CULTURA
OCCHIELLO:
LE VIE DEGLI SCHIAVI/ 5.Fine
TITOLO:
DAKAR il porto più nero
SOMMARIO:
Si conclude sulla costa senegalese davanti a Gorée il viaggio tra
i luoghi dello schiavismo. Qui un colossale museo racconterà la
tragedia della tratta e le grandi civiltà africane che ha
distrutto
AUTORE:
di SERGIO FRAU
TESTO:
Dakar - La storia dei loro avi, catturati e venduti, finirà in un
museo. Ora stanno in fila. Aspettano pazienti l' imbarco. Hanno
fatto spese al mercato grande di Dakar. Ognuno ha qualcosa: pane
lungo francese, papaye, i catini di smalto a disegni belli che
stanno sostituendo le zucche, sacchi di grano tenero, un
pappagallo in una gabbia troppo piccola che, però, sbecchetta lo
stesso il suo mangime... Sono peul, smilzi e affilati che salutano
come in Etiopia (sorreggendosi l' avambraccio mentre porgono la
mano) perché da lì, migliaia di chilometri più in là, a est,
arrivano. Sono wolof che anch' essi, mille anni fa erano sotto l'
Egitto, in Nubia la Terra d' oro, come nub vuol dire. Sono
spilungoni mandingo, figli dei figli di schiavi scampati. Belle,
bellissime le wolof hanno visi perfetti che sovrastano, anche in
altezza, tutti gli altri. E ci sono pure i toucoleur, che quando
non capisci bene l' etnia, puoi essere certo che sono sempre loro.
L' ammucchiata rispetta le proporzioni di un carico negriero di
quelli che da qui partivano. In più, rispetto ad allora - a far
allegria e colore - c' è qualche fricchettone rastafariano tutto
boccoli all' acchiappo di turiste. Il battello sta finendo di
scaricare i suoi passeggeri: la maggioranza neri che vanno, ora,
al mercato. Pochi i bianchi in tour, e tutti contenti: hanno
appena catturato sulle loro pellicole Gorée, l' isola della
Memoria, la tappa più famosa della Tratta atlantica, la prima che
le navi europee incontravano costeggiando per centinaia di
chilometri la Mauritania dove il litorale non permetteva di
rifornirsi di acqua e frutta. E' una montagna di ruggine il
battello che riparte per l' isola degli schiavi. Neppure 20 minuti
di mare e si è già a Gorée. Chi si è commosso visitando i forti
del Ghana, immensi come sono, con i loro serragli sterminati per
stoccarvi i neri da deportare, non può emozionarsi anche qui con
la stessa intensità. Dal 1979 è Patrimonio Mondiale dell' Umanità,
il listone d' oro dell' Unesco, e questo l' ha fatta salvare,
restaurare, ma anche liftare. I colori delle case, ormai, sono
quelli ricercati di Porto Cervo; i negozietti, svolazzanti di
caftani e borse, la fanno una Positano, esotica, drammatica certo,
ma Positano... Persino la Casa degli Schiavi - piccolina, con i
suoi quattro locali al pianoterra per stipare i neri prima dell'
imbarco, e le sale per i bianchi del primo piano vista mare -
appare inadeguata alla tragedia che racconta. (E sì, perché dal
Senegal la Tratta ha succhiato sangue buono per secoli, fino all'
anemia: tutte quelle etnie in fila all' imbarcadero per Gorée le
ritroviamo in Brasile, in Colombia a sudar banane, a Cuba, nei
Caraibi dello zucchero, negli Stati Uniti del cotone e del
tabacco...). Anche per questo è stato deciso di costruire proprio
qui davanti, sulla costa di Dakar, un vero, grande Museo dello
Schiavismo. Un colosso che sia anche monumento, mausoleo, lapide,
centro di documentazione, motore di memoria dell' Olocausto Nero,
Arca di nuove alleanze... Così l' Unesco, l' anno scorso, ha fatto
un concorso e l' ha vinto uno studio di architetti milanesi -
Ottavio Di Blasi e Paolo Simonetti - con un progetto magniloquente
quanto il concorso richiedeva. A vederlo su carta impressiona:
come segnale forte - non v' è dubbio - è senz' altro forte! è un
conchiglione in cemento armato e resina, una guglia che arriva a
140 metri per bucare il cielo di Dakar e farsi vedere dagli aerei
e dalle navi che arrivano dall' Atlantico. Il suo costo - c' è chi
parla di decine e decine di miliardi - ha già provocato polemiche
a non finire: "Con tutti i guai che abbiamo, con l' analfabetismo
che ancora ci perseguita, con le vaccinazioni ancora da fare,
spendere tutti quei soldi per il museo è una vera pazzia",
sostiene chi - come Aliou Diack - dà battaglia per bloccare l'
esecuzione del progetto. "Ci serve: dobbiamo osare, spiegare... ",
gli obietta Mbaye Guèye, uno dei professori più famosi dell'
università della capitale... E spiega: "Quel nostro antico dramma
non è ancora stato raccontato. Ci perseguita ancora oggi sotto
forma di razzismo: il mondo (ma anche la stessa Africa) non sa -
perché nessuno gliel' ha mai voluto dire davvero - come l'
equilibrio dell' intero continente sia stato squassato dal clima
di terrore instaurato dalla tratta per tre secoli. Basta guardarla
l' Africa, su una mappa: quelle armi che dalle sue coste venivano
fatte entrare nell' interno, sconvolgevano tutto, e bisognava
abbandonare i campi, e le bestie, e ci si arrampicava sulle
montagne, e si emigrava sempre un po' più in là... Fu dopo tre
secoli di guerre e razzie - come una Jugoslavia, ma durata cento
volte di più - sempre con la paura di essere catturati dalle tribù
al servizio dei negrieri della costa, che i bianchi - armati di
bibbie, mitragliatrici e chinino - cominciarono a esplorare le
nostre terre ormai devastate. Ma chi le racconta mai le civiltà
che esistevano prima dello schiavismo? Gli imperi di etnie
confederate? Chi ha mai visto il prima e il dopo della nostra
gente?". Il Museo dello Schiavismo dovrebbe fermarsi a 150 anni
fa, con l' abolizione della Tratta anche nella Francia d'
oltremare (quel 1848, data magica che il mondo quest' anno
celebra), tagliando fuori dal racconto il capitolo brutto del
colonialismo, di quando cioè gli europei - immediatamente dopo -
smisero di prendersi gli africani per cominciare a prendersi
direttamente l' Africa. Appena finirono di marchiare gli schiavi,
infatti, decisero di incidere - con righelli, spocchia e ignoranza
- confini pazzi sul continente: come rasoiate a dividere - in una
terra che non aveva mai avuto vere frontiere - etnie omogenee, o
come recinti dove ammassare tribù nemiche da sempre, ma anche
barriere sulle vie dei pascoli e dell' erba buona e delle prede da
inseguire. Guèye ne è convinto: "Un nuovo grande museo che
racconti il passato ci serve per il futuro: restituirà
consapevolezza e orgoglio alla nostra gente". E c' è anche chi -
come gli italiani del progetto e altri supporter senegalesi dell'
iniziativa - pensa che potrebbe essere proprio questo quel Museo
delle civiltà africane, che Leopold Sedhar Senghor ha tanto
sognato, che c' è il mercato della diaspora nera da coinvolgere,
con i loro dollari forti e il loro bisogno di radici... Con gli
altri, gli oppositori, che invece ribattono: "Ma se non riusciamo
a tenere in vita il Museo di Dakar, dove topi, umidità, termiti e
un direttore che se ne fotte stanno mangiandosi tutto...". Essersi
preparati con cura al restauro e alla manutenzione di un museo e
dover lavorare lì dentro, oggi, non è certo una bella cosa...
Bisogna addirittura raccomandarsi di risultare anonimi se si parla
con i giornalisti. Solo su quest' accordo si capisce che il
tecnico (che chiameremo Mahumud) sa tutto. Sa che per quella
maschera esposta da cui esce polvere gialla come farina ci vuole
la siringa; sa che per il tam tam scolpito e le sue termiti
funzionerebbero meglio i gas; che la colla bianca che non lascia
aloni... Sa, perché ha fatto gli stage giusti a Parigi, a Roma...
Mahamud sa tutto. Ed è disperato: non gli danno strumenti, né
autonomia. Persino lo stipendio di 240 mila lire a fine mese
glielo fanno sospirare, tanto che non ha neppure i soldi per
comprare un pollo per far festa alla fine del Ramadan, figurarsi
il montone della tradizione... Se non si mette a rubare anche lui
è davvero un miracolo. Tanto più che la tentazione ce l' ha sopra
la testa: paradossalmente l' intero secondo piano del suo museo è
occupato da una maestosa collezione privata di idoli, totem,
tamburi, troni ben tenuti, ben scelti, ben pagati. "I segni del
Potere in Africa" si chiama la mostra e presenta roba davvero
splendida, insolita, di grande potenza. Sul saccheggio e il
traffico clandestino dell' arte africana, l' allarme è stato dato
da tempo. Inutilmente. In Benin talvolta sono addirittura i
cooperanti e soprattutto le loro mogli a far traffico di reperti
d' arte. La valle del Niger è un self service per tombaroli. In
Zaire, l' anno scorso, il bel museo di Kinshasa è stato
saccheggiato a morte con l' entrata in città di Kabila e i suoi.
E, poi, bastano i mercati per vedere e comprare roba vera,
vecchia, bella. Così fan tutti. Dappertutto. Almeno per ora.
Certo, oggi la gente d' Africa vuol sapere: non bastano più i
musei folklorici creati dai colonialisti. Persino Gorée non basta
più... Nella sua Casa degli Schiavi il conservatore, monsieur
Ndiaye si è sistemato tra vecchie catene e aforismi appuntati al
muro, firmati da personaggi famosi che hanno visitato questa
stazione dolorosa: da Harry Belafonte a Delors, ad Annie Girardot
("Sì, ci si sente male: neri dentro"). A cinque minuti da lì - in
un vecchio fortino sistemato a galleria storica - quel che più
colpisce sono invece i ritratti fotografici della gente che da
Gorée è passata a caccia di una via per le Indie prima, a caccia
di neri poi. Gran bei nomi, lì dentro (Vasco da Gama, Mungo Park,
ma anche Enrico il Navigatore, Maria II figlia di Dom Pedro, il
duca di Lauzum, Jean conte di Estresses...), tanto che vien voglia
di sapere di preciso quanto del sangue blu e dell' oro europeo si
sia creato vampirizzando questi popoli. Curiosità che il nuovo
museo, in contatto telematico con i grandi archivi del mondo
negriero (a Liverpool come a Nantes come ad Amsterdam...) potrebbe
cominciare a raccontare con facilità. "Hanno sbiancato la Storia"
disse una volta, con dolore, Malcolm X. è vero: i mille colori del
Nero non sono stati ancora mai raccontati sul serio.
(5. Fine. Le precedenti puntate sono uscite il 19 gennaio, il 3 e
il 12 febbraio, e il 3 marzo)

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